Danes sem zvedel žalostno novico o smrti Angela Are, enega najpomembnejših zgodovinarjev srednje Evrope. Profesorja Aro sem imel čast spoznati osebno; med najinimi srečanji na simpozijih, ki jih je organiziral goriški ICM, je profesor Ara izrazil zanimanje, da bi izvedel kaj več o slovenskih odzivih na njegovo knjigo Trst, obmejna identiteta, ki jo je v osemdesetih letih izdal skupaj s prijateljem Claudiom Magrisom in ki je ravno v tistem času izšla v slovenskem prevodu. Zato sem zanj v italijanščino prevedel spremno besedo, ki jo je h knjigi napisal tržaški Slovenec Igor Škamperle, sicer profesor sociologije kulture na Univerzi v Ljubljani. Z današnjo objavo tega prevoda se na svoj način poklanjam spominu Angela Are, gentlemana stare šole in enega najboljših zgodovinarjev tega območja.
Oggi mi è giunta la triste notizia della morte di Angelo Ara, uno dei più importanti storici italiani, che ha dedicato i suoi studi alla storia dell'Europa Centrale, in particolar modo alle zone plurilinguistiche limitrofe all'Italia. Ara è stato, tra l'altro, il presidente della Commissione mista storico-culturale italo-slovena. Ho avuto l'onore di conoscere il professor Ara personalmente. In più occasioni abbiamo avuto modo di parlare ai convegni dell'Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, allo sviluppo del quale ha dedicato molte energie negli ultimi anni della sua vita. In uno di questi incontri, il professor Ara mi pregò se potessi raccogliere per lui degli riscontri al suo libro Trieste: un'identità di frontiera, che aveva scritto assieme a Claudio Magris, e che era appena uscito nella traduzione slovena. Così tradussi per lui la prefazione che al suo libro aveva scritto Igor Škamperle, triestino di nascita e professore di sociologia culturale all'università di Lubiana. In occasione di questa triste data, la pubblico in ricordo di Angelo Ara, nella speranza che induca qualcuno a leggere quello che è, probabilmente, uno dei libri più importanti mai scritti sulla città nordadriatica.
Oggi mi è giunta la triste notizia della morte di Angelo Ara, uno dei più importanti storici italiani, che ha dedicato i suoi studi alla storia dell'Europa Centrale, in particolar modo alle zone plurilinguistiche limitrofe all'Italia. Ara è stato, tra l'altro, il presidente della Commissione mista storico-culturale italo-slovena. Ho avuto l'onore di conoscere il professor Ara personalmente. In più occasioni abbiamo avuto modo di parlare ai convegni dell'Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, allo sviluppo del quale ha dedicato molte energie negli ultimi anni della sua vita. In uno di questi incontri, il professor Ara mi pregò se potessi raccogliere per lui degli riscontri al suo libro Trieste: un'identità di frontiera, che aveva scritto assieme a Claudio Magris, e che era appena uscito nella traduzione slovena. Così tradussi per lui la prefazione che al suo libro aveva scritto Igor Škamperle, triestino di nascita e professore di sociologia culturale all'università di Lubiana. In occasione di questa triste data, la pubblico in ricordo di Angelo Ara, nella speranza che induca qualcuno a leggere quello che è, probabilmente, uno dei libri più importanti mai scritti sulla città nordadriatica.
Angelo Ara (nato nel 1942) e Claudio Magris (1939) scrissero, agli inizi degli anni ottanta, un buon libro di piacevole lettura su Trieste che suscitò un grande interesse in Italia e riportò l’attenzione sulla complessa identità culturale e mitteleuropea di Trieste, divenuta oramai simbolo dell’intreccio fra tradizioni, passato storico e utopia. Gli autori - il primo professore di storia moderna all’università di Pavia, il secondo professore di letteratura tedesca all’università di Trieste - hanno dimostrato di essere dei buoni conoscitori e sostenitori della stretta e avvolte drammatica, ma in sostanza pur sempre fertile convivenza delle molte culture di origine slava, italica e germanica che compongono il mosaico mitteleuropeo, e che si fondono in uno stretto abbraccio nella città nordadriatica. Trieste, un’identità di frontiera, una città periferica e d’incontro, di partenze e di ritorni, dell’universalità e dell’avvolte difficilmente comprensibile particolarità. Qual è questa identità che si è opposta all’omogeneizzazione, divenendo a modo suo un testimone di una più larga e altresì complessa realtà europea, che ci accomuna tutti?
Con una sensibilità che potremmo dire tipicamente costiera, Ara e Magris proposero una corta, ma abbastanza densa presentazione della storia culturale di Trieste, che certamente non è una sistematica ricostruzione di tutti gli episodi importanti della storia cittadina, bensì una presentazione abbastanza oggettiva di quelle idee sociali, nazionali, ideologiche e politiche, ma soprattutto letterarie, che hanno influito - forse sarebbe meglio dire che hanno creato l’identità specifica di Trieste, che le hanno dato forma, che hanno invigorito e trasmesso l’immagine di una città nella quale la geometria politica si è manifestata in un modo anche molto concreto. Trieste non è estranea al lettore sloveno. Negli ultimi tempi sono uscite molte ricerche di autori nostrani che si occupano di diverse questioni specifiche, dalla politica e la storia alla cultura e ai conseguimenti artistici nel campo della letteratura, musica, pittura, fino a descrizioni generali della vita della comunità slovena in Italia, ricerche sull’organizzazione ribelle TIGR, sull’attività alpinista, il crollo della Jugoslavia etc. Di letteratura specializzata di qualità non ce n’è mai troppa, ma ne abbiamo troppa per poter fornire una lista delle pubblicazioni più importanti. Mi basti ricordare due libri usciti nell’ultimo anno che si inseriscono nella problematica trattata dal presente volume, e che rappresentano un fondamento cruciale per comprendere la non sempre facile e mai semplice vita pubblica sul confine occidentale sloveno. Si tratta della Storia degli Sloveni in Italia 1866 – 2000, preparata con debita documentazione da Milica Kacin Wohinz e Jože Pirjevec (edizione italiana: Storia degli Sloveni in Italia 1866-1998, Marsilio, Venezia 1998). Il secondo libro che vorrei nominare è il Libro Triestino (slov: Tržaška knjiga), la terza nella serie di monografie (dopo quella su Lubiana e Maribor) che la venerabile casa editrice Slovenska Matica ha voluto dedicare alle città slovene. Il volume, che riporta una selezione di riflessioni letterarie su Trieste scritte da autori sloveni da Francè Prešeren e Josip Godina Vrdelski fino agli autori contemporanei, è stato preparato e redatto da Marija Pirjevec, con annessa selezione artistica di vedute triestine ad opera di Jasna Merkù. La storia di Trieste e la sua cultura fanno parte integrante della storia slovena, ma i complessi rapporti conseguenti agli sviluppi del secolo passato, hanno influito sulla percezione ideologica di questo territorio di confine, offuscando la possibilità di uno sguardo oggettivo e una sincera collaborazione. Perciò e d’obbligo nominare anche la pubblicazione del rapporto della commissione mista sui Rapporti italo-sloveni 1880 – 1956, uscito nel 2001 presso l’editrice Nova Revija. La commissione era stata composta da sette membri da ambe le parti, presieduta da Milica Kacin Wohinz per la parte slovena, e da Sergio Bartole per la parte italiana fino al 1999, in seguito da Sergio Conetti. Dopo minuziose e sicuramente difficili, ma sempre oggettive discussioni, la commissione ha raggiunto l’accordo su una comune versione dell’interpretazione dei fatti nell’Istria settentrionale, nel Litorale e a Trieste che ora è a disposizione del pubblico interessato e che potrebbe significare la base per una nuova costruttiva sensibilizzazione del territorio e per un fertile sviluppo su ambe le parti di un confine che fra non molti anni- com’ è tipico della Venezia Giulia- cambierà di nuovo il suo carattere.
Dal suddetto si potrebbe quindi dedurre che nella coscienza di un abitante medio della Slovenia, Trieste sia ovviamente ben presente, che la specificità di questo ambiente gli sia più o meno nota. Purtroppo non è così. Fra Trieste e l’entroterra del territorio sloveno dell’ex Carniola si inabissa una voragine che ci lascia frequentemente stupefatti e che è difficile colmare o almeno riflettere. Questa voragine è rimasta dopo il crollo della Jugoslavia, e si è- a sorpresa di molti- perfino accresciuta. Questa prefazione non è certamente il luogo per elencare esempi dalla vita quotidiana che dimostrino quanta poca volontà ci sia per comprendere e valorizzare l’orizzonte regionale nel quale viviamo, nell’ottica di quella che lo storico contemporaneo Fernand Braudel chiamava la storia della “lunga durata”, la quale, nelle metafore dell’esistenza e delle prospettive creative, influisce sull’essenza dell’uomo molto più profondamente di prammatici cambiamenti di confine, dogane e formulari di ogni tipo. Così può accadere che nell’anno 2001 i comuni dalle due parti del confine italo-sloveno decidano di iniziare una collaborazione nello spirito europeo, che però il sindaco di Sesana mandi gli inviti per un incontro ai sindaci sloveni in Italia (comuni di Dolina, Monrupino, Sgonico, Duino-Aurisina) in lingua italiana, come se non vivessero tutti insieme sul Carso e non fossero posti in un fondamentale rapporto di tipo esistenziale, culturale, economico e quant’altro, nei confronti con la città, Trieste, che ha sempre nutrito questi luoghi e ha sempre dipeso da loro. Così accade che nel novembre del 2001, lo stimato Cankarjev dom di Lubiana mandi al Primorski dnevnik di Trieste, uno dei cinque quotidiani sloveni, una comunicazione su una serie di avvenimenti nell’Aula Gallus in italiano. Sbadatezza? Probabilmente. Mancanza di una sensibilità per la geografia culturale del territorio? Anche. Memoria corta ed euforia per il confinamento nello stato nazionale? Forse.
È lo stesso Magris ad ammonire più volte come nell’era moderna l’invidia delle piccole patrie chiuse abbia provocato delle tragedie, anche nei nostri luoghi. È ovvio che Trieste dovrebbe far parte integrante dell’orizzonte di chi conosce la storia slovena, sebbene si potrebbe dire lo stesso anche per l’altra parte: gli artefici della cultura italiana a Trieste dovrebbero conoscere l’entroterra della loro città, la sua tradizione e i suoi costumi. Eppure anche in questa direzione c’è frequentemente in atto un’ingenua ignoranza, una goffa cecità, un inconscio silenzio che non è sicuro della purezza della propria stirpe e perciò, spesso preso dalla paura, dall’incertezza nello stabilire la propria identità, pronto ad estromettere l’altro dal proprio orizzonte culturale.
Le ragioni che spieghino l’importanza della pubblicazione del loro libro in sloveno, sono almeno due: al lettore viene offerto lo sguardo sulla conflittuale storia triestina dell’ottocento e novecento dal punto di vista italiano, che è ovviamente molto meno conosciuto da coloro che tengono conto solamente della propria percezione, e che anzi il lettore sloveno non è affatto abituato a sentire. Avvolte le differenze si concentrano attorno a terminologie che affondano in opinioni e percezioni radicalmente opposte. Per esempio: l’arrivo dell’armata partigiana di Tito a Trieste il primo maggio 1945, era una liberazione o un’occupazione? Quale argomentazione ha maggior peso: che la città urbana appartenga al suo entroterra, come era stato avanzato ai negoziati dopo la seconda guerra mondiale dai diplomatici sloveni ovvero jugoslavi, o il contrario, che è l’entroterra che appartiene alla città, come sostenuto dalla parte italiana nel caso di Trieste e ancor più nel contesto della questione istriana? Non si tratta di sopprimere queste divergenze, tanto meno di superarle in modo fittizio, ma potremo certamente capire meglio la dinamica della società se nel complicato nodo triestino conosciamo le argomentazioni degli altri e cerchiamo di comprenderle nell’ambito di aspettative e sofferenze che non sono necessariamente le nostre. Magris e Ara si confrontano con questo complicato nodo triestino da oggettivi storici culturali, e questa è la seconda ragione per la pubblicazione di quest’opera. Al lettore viene presentato il vivace clima creativo che ha caratterizzato, assieme all’identità plurinazionale, la città triestina dai fertilissimi ultimi decenni della monarchia asburgica attraverso il sovversivo novecento fino ai giorni nostri. Tipica per Trieste è la postura cosmopolita creata, attraverso il linguaggio del dialetto triestino, da quotidiani incontri tra persone di nazionalità diverse, l’Italiano e lo Sloveno, il Tedesco e l’Ebreo, il Greco e il Croato. Qui si soffermarono commercianti e scrittori, Joyce per esempio, alcuni lasciarono il proprio segno nella storia, come il vescovo Hren (Coroneo) e il barone Zois. A Duino, tra il mare e le bianche rocce calcaree, meditò per lungo tempo il poeta Rilke. Su Trieste ha influito Freud, e i triestini Svevo e Bartol furono tra i primi scrittori europei a riprendere nella letteratura i concetti della psicoanalisi. Dopo il crollo della monarchia e l’avvento del fascismo, i rapporti nella città si aggravarono fortemente. Il movimento irredentista, che per lungo tempo era arso nel sottosuolo, aspettando l’annessione della Venezia Giulia al Regno d’Italia, nel 1918 si ritrovò, nell’euforia generale, sul Monte Nero, sul Tricorno e sul Nevoso. Con una patetica aggressiva volle all’improvviso cancellare qualsiasi pluralità culturale di questi territori. Già nel 1920 bruciava in fiamme il Narodni dom sloveno, la Casa del Popolo, capolavoro dell’edilizia urbana dell’architetto Max Fabiani, il quale già prima non riceveva molte commissioni a Trieste a causa delle sue origini slovene. Le scuole slovene furono chiuse e anche, questo va ricordato, tutte quelle tedesche. I tedeschi se ne andarono quasi tutti. Gli sloveni rimasero. Come anche quei Triestini che si sentivano radicati nel complicato, ma prezioso e difficilmente ritrovabile microcosmo triestino. Julius Kugy, per esempio, amante della Val Trenta e delle Alpi Giulie. Nel settimo capitolo viene menzionato dagli autori come Kugy cercasse invano di trasferirsi a Vienna. In lui vedono l’esempio prezioso di quanti persistettero nell’attaccamento al plurilinguismo nell’ambito familiare e al trilinguismo del litorale adriatico prima del 1914. Da Vienna, dove tentò invano di stabilirsi, Kugy tornò: »Sono rimasto chiaramente a Trieste. Amo questa bella città, il chiaro sole triestino, il cielo triestino e l’immenso mare azzurro. Nessun’altro luogo potrebbe essere la mia vera patria. Questa è la città della mia giovinezza, del mio lavoro, della mia attività.« (pag. 144)
A Trieste persistettero in circostanze che minacciavano ogni sviluppo di qualsiasi libera attività culturale moltissimi fautori creativi sloveni, da uomini politici ad artisti, da attivisti radicali a sacerdoti. Gli autori non si sono dimenticati di nomi che fanno parte integrante della storia slovena ma, a loro tempo, anche dell’identità triestina e della moderna coscienza europea. Con valutazioni brevi ma fitte di esperienze, vengono nominati in un modo che lasci al lettore la sensazione di come saldamente fossero congiunti con l’ambiente nel quale vivevano e lavoravano, e come possa apparire parziale o persino impossibile una storiografia culturale che raccontasse la storia triestina in una chiave di esclusivismo nazionale. Ma proprio questo era e fino a un certo punto rimane l’aspirazione di quanti negavano e tuttora negano la pluralità eterogenea dell’identità di confine. Questa può essere creativa solo in quanto ammetta l’apertura espressiva e la reciproca conappartenenza. Ara e Magris ci offrono una metafora di convergenze e scontri nazionali che denotano l’Europa contemporanea, e allo stesso tempo ci riportano alle concrete circostanze nelle quali operavano i Triestini e Giuliani sloveni: i politici Etbin Kristan e Josip Vilfan, Lavo Čermelj e Ivan Regent, Avgust Černigoj e Srečko Kosovel, il monsignor Jakob Ukmar, Marij Kogoj, Henrik Tuma, Pinko Tomažič e molti altri.
Gli autori segnalano consistentemente di come la comunità slovena nel Triestino fosse, a partire dalle prime formazioni politiche nell’ottocento, organizzata in modo plurale. Il club Edinost, che pubblicava l’omonimo quotidiano, contribuì in modo importante al risveglio e alla formazione della coscienza nazionale e a causa della forza della controparte italiana, a Trieste, diversamente di quanto successe a Gorizia, gli esponenti di orientamento cattolico e liberale furono costretti a stringere una solida alleanza. Oltre a ciò, la vita politica era segnata da una attivissima socialdemocrazia slovena e da un movimento socialista legato alle classi operaie urbane.
Dopo il maggio 1945, il nodo triestino cambiò radicalmente e, a differenza delle altre regioni all’interno dei due stati, l’Italia e la Jugoslavia, si andava risolvendo molto più lentamente. Un giovane lettore che non conosce la zona oltre confine, rimarrà forse sorpreso da questa semplice constatazione: il delineamento del confine dopo la guerra non era stato né ovvio né automatico. Le truppe di Tito hanno battuto per dodici ore i neozelandesi nella corsa a Trieste, entrando così per primi in città. Dopo quaranta giorni si dovettero ritirare lasciando così spazio ai negoziati, ma le posizioni di partenza erano state segnate. Trovo molto interessante un fatto debitamente sottolineato dagli autori, ma che molte volte non viene ricordato: dopo il 1945, cioè durante tutto il difficile periodo dell’amministrazione anglo-americana del formale e mai realmente effettuato Territorio libero di Trieste, suddiviso in zona A (Trieste e dintorni) e zona B (l’Istria settentrionale da Capodistria a Cittanova) sotto amministrazione jugoslava, il quadro politico di Trieste subì un profondo mutamento. Cambiò in quel basilare significato di strutturazione del potere sociale, nella sua logica e argomentazione, il ché ci aiuta a comprendere quella politica complicata, chiusa verso la vicina Slovenia per tutti i decenni fino ad oggi, una politica noncostruttiva e difficilmente comprensibile nella prospettiva del futuro. A Trieste venne a formarsi una forte politica “guelfista”, come la chiamano gli autori usando un significativo termine della storia politica italiana, che nel Triestino univa la Democrazia cristiana e i circoli del capitalismo nazional-liberale. Questa constatazione da sola non ci dice molto, perciò dobbiamo spiegarla. Il vescovo Santin, di origine capodistriana, si affermò come simbolo delle tendenze antislovene, e allo stesso tempo l’afflusso di migliaia di profughi dalle città istriane a Trieste cambiò profondamente l’indirizzo del movimento politico cattolico. Cessò il suo tradizionale appoggio alla tradizionale formula sociale dell’era austriaca, che era stata in armonia con gli interessi sloveni, delineandosi, a causa della nuova configurazione politica e dell’ideologia comunista jugoslava, nel suo esatto contrario. In questo senso Trieste e Gorizia sono due storie completamente diverse. Subito dopo ci fu un nuovo strappo nell’internazionale comunista, con la Jugoslavia di Tito che si staccò dall’Unione Sovietica stalinista, provocando nuovi scontri all’interno del movimento operaio e lasciando conseguenze durature tra gli sloveni a Trieste. Gli autori si soffermano anche su questo episodio, inserendolo nell’ambito del lungo processo di soluzione della questione del Territorio libero di Trieste, che terminò con la sua liquidazione e l’annessione della zona A all’Italia nel 1954. Fu (soltanto) allora che con il Memorandum di Londra, anche Capodistria, Isola, Pirano e Buie vennero a far parte della Jugoslavia, sebbene avessero cominciato la loro integrazione nella nuova realtà socialista fin dal primo dopoguerra. Ciononostante, ogni qualvolta prendiamo in mano un libro di storia, anche se soltanto di saggistica, come questo, troviamo l’impressione che la parte jugoslava abbia maneggiato con successo i negoziati diplomatici, mentre la parte italiana o non ci sia riuscita o non abbia capito la complessa identità culturale di questi luoghi. L’unico sul versante italiano che avrebbe mostrato della sensibilità per le questioni culturali, sarebbe stato de Gasperi, mentre »gli alleati, in particolar modo gli americani« si sarebbero scandalizzati di come mai »tante discussioni e antagonismi per pochi chilometri quadri di terra.« (pag. 214)
Difficilmente una misurazione del territorio in termini quantitativi riuscirà a comprendere la specifica identità dei microcosmi, così importante per la cultura europea, in quanto nutre e sostiene l’eterogeneità della tradizione, la complessità delle espressioni estetiche, la reciproca resistenza e coesistenza delle diversità, il terreno della patria e dell’utopia, del dolore e della gioia, il movente della paura, del continuo ritorno e della fantasia.
Tutto ciò è Trieste, e non è un caso che Ara e Magris, nonostante la storia piena di conflitti che per lunghi decenni si era svolta senza sosta nelle vie, preferiscano descriverla nelle parabole del linguaggio letterario di Giani Stuparich, Italo Svevo e Scipio Slataper. A Trieste non è facile vivere e Joyce si lamentava di essersi divorato di rabbia mentre viveva a Trieste, concludono gli autori. »A causa della sua diversità, alimentata da sé stessa, e che cerca il senso nella inesprimibilità e nella negazione, trovando in questo anche il proprio alibi, Trieste diventa di nuovo attuale, perché la sua posizione periferica e marginale funge da specchio alla situazione generale della nostra società. Questa condizione può essere vissuta, ma non proclamata: “Quando poi qualcuno viene da noi - così scriveva già nel 1912 Slataper a Sibilla Aleramo -, non sappiamo fare altro che condurlo per queste grigie vie e meravigliarci che egli non capisca”.«
Forse in questi nuovi decenni, adesso che non c’è più bisogno di correre per i negozi e pensare come portare la roba oltre la dogana, potremmo fare un salto a Trieste per prenderci un caffé, fare una passeggiata sul Colle di San Giusto, visitare un conoscente, bere un bicchiere di malvasia chiacchierando sugli autori, da Pahor e Rebula a Tomizza, che vivono in questa città e che hanno creato, assieme ai complicati eventi del novecento, un ambiente che ci è così tanto familiare e allo stesso tempo così estraneo, ma che resta pur sempre parte integrante di quello con cui ci presenteremmo nel modo più veritiero a un visitatore che venisse da lontano.
Con una sensibilità che potremmo dire tipicamente costiera, Ara e Magris proposero una corta, ma abbastanza densa presentazione della storia culturale di Trieste, che certamente non è una sistematica ricostruzione di tutti gli episodi importanti della storia cittadina, bensì una presentazione abbastanza oggettiva di quelle idee sociali, nazionali, ideologiche e politiche, ma soprattutto letterarie, che hanno influito - forse sarebbe meglio dire che hanno creato l’identità specifica di Trieste, che le hanno dato forma, che hanno invigorito e trasmesso l’immagine di una città nella quale la geometria politica si è manifestata in un modo anche molto concreto. Trieste non è estranea al lettore sloveno. Negli ultimi tempi sono uscite molte ricerche di autori nostrani che si occupano di diverse questioni specifiche, dalla politica e la storia alla cultura e ai conseguimenti artistici nel campo della letteratura, musica, pittura, fino a descrizioni generali della vita della comunità slovena in Italia, ricerche sull’organizzazione ribelle TIGR, sull’attività alpinista, il crollo della Jugoslavia etc. Di letteratura specializzata di qualità non ce n’è mai troppa, ma ne abbiamo troppa per poter fornire una lista delle pubblicazioni più importanti. Mi basti ricordare due libri usciti nell’ultimo anno che si inseriscono nella problematica trattata dal presente volume, e che rappresentano un fondamento cruciale per comprendere la non sempre facile e mai semplice vita pubblica sul confine occidentale sloveno. Si tratta della Storia degli Sloveni in Italia 1866 – 2000, preparata con debita documentazione da Milica Kacin Wohinz e Jože Pirjevec (edizione italiana: Storia degli Sloveni in Italia 1866-1998, Marsilio, Venezia 1998). Il secondo libro che vorrei nominare è il Libro Triestino (slov: Tržaška knjiga), la terza nella serie di monografie (dopo quella su Lubiana e Maribor) che la venerabile casa editrice Slovenska Matica ha voluto dedicare alle città slovene. Il volume, che riporta una selezione di riflessioni letterarie su Trieste scritte da autori sloveni da Francè Prešeren e Josip Godina Vrdelski fino agli autori contemporanei, è stato preparato e redatto da Marija Pirjevec, con annessa selezione artistica di vedute triestine ad opera di Jasna Merkù. La storia di Trieste e la sua cultura fanno parte integrante della storia slovena, ma i complessi rapporti conseguenti agli sviluppi del secolo passato, hanno influito sulla percezione ideologica di questo territorio di confine, offuscando la possibilità di uno sguardo oggettivo e una sincera collaborazione. Perciò e d’obbligo nominare anche la pubblicazione del rapporto della commissione mista sui Rapporti italo-sloveni 1880 – 1956, uscito nel 2001 presso l’editrice Nova Revija. La commissione era stata composta da sette membri da ambe le parti, presieduta da Milica Kacin Wohinz per la parte slovena, e da Sergio Bartole per la parte italiana fino al 1999, in seguito da Sergio Conetti. Dopo minuziose e sicuramente difficili, ma sempre oggettive discussioni, la commissione ha raggiunto l’accordo su una comune versione dell’interpretazione dei fatti nell’Istria settentrionale, nel Litorale e a Trieste che ora è a disposizione del pubblico interessato e che potrebbe significare la base per una nuova costruttiva sensibilizzazione del territorio e per un fertile sviluppo su ambe le parti di un confine che fra non molti anni- com’ è tipico della Venezia Giulia- cambierà di nuovo il suo carattere.
Dal suddetto si potrebbe quindi dedurre che nella coscienza di un abitante medio della Slovenia, Trieste sia ovviamente ben presente, che la specificità di questo ambiente gli sia più o meno nota. Purtroppo non è così. Fra Trieste e l’entroterra del territorio sloveno dell’ex Carniola si inabissa una voragine che ci lascia frequentemente stupefatti e che è difficile colmare o almeno riflettere. Questa voragine è rimasta dopo il crollo della Jugoslavia, e si è- a sorpresa di molti- perfino accresciuta. Questa prefazione non è certamente il luogo per elencare esempi dalla vita quotidiana che dimostrino quanta poca volontà ci sia per comprendere e valorizzare l’orizzonte regionale nel quale viviamo, nell’ottica di quella che lo storico contemporaneo Fernand Braudel chiamava la storia della “lunga durata”, la quale, nelle metafore dell’esistenza e delle prospettive creative, influisce sull’essenza dell’uomo molto più profondamente di prammatici cambiamenti di confine, dogane e formulari di ogni tipo. Così può accadere che nell’anno 2001 i comuni dalle due parti del confine italo-sloveno decidano di iniziare una collaborazione nello spirito europeo, che però il sindaco di Sesana mandi gli inviti per un incontro ai sindaci sloveni in Italia (comuni di Dolina, Monrupino, Sgonico, Duino-Aurisina) in lingua italiana, come se non vivessero tutti insieme sul Carso e non fossero posti in un fondamentale rapporto di tipo esistenziale, culturale, economico e quant’altro, nei confronti con la città, Trieste, che ha sempre nutrito questi luoghi e ha sempre dipeso da loro. Così accade che nel novembre del 2001, lo stimato Cankarjev dom di Lubiana mandi al Primorski dnevnik di Trieste, uno dei cinque quotidiani sloveni, una comunicazione su una serie di avvenimenti nell’Aula Gallus in italiano. Sbadatezza? Probabilmente. Mancanza di una sensibilità per la geografia culturale del territorio? Anche. Memoria corta ed euforia per il confinamento nello stato nazionale? Forse.
È lo stesso Magris ad ammonire più volte come nell’era moderna l’invidia delle piccole patrie chiuse abbia provocato delle tragedie, anche nei nostri luoghi. È ovvio che Trieste dovrebbe far parte integrante dell’orizzonte di chi conosce la storia slovena, sebbene si potrebbe dire lo stesso anche per l’altra parte: gli artefici della cultura italiana a Trieste dovrebbero conoscere l’entroterra della loro città, la sua tradizione e i suoi costumi. Eppure anche in questa direzione c’è frequentemente in atto un’ingenua ignoranza, una goffa cecità, un inconscio silenzio che non è sicuro della purezza della propria stirpe e perciò, spesso preso dalla paura, dall’incertezza nello stabilire la propria identità, pronto ad estromettere l’altro dal proprio orizzonte culturale.
Le ragioni che spieghino l’importanza della pubblicazione del loro libro in sloveno, sono almeno due: al lettore viene offerto lo sguardo sulla conflittuale storia triestina dell’ottocento e novecento dal punto di vista italiano, che è ovviamente molto meno conosciuto da coloro che tengono conto solamente della propria percezione, e che anzi il lettore sloveno non è affatto abituato a sentire. Avvolte le differenze si concentrano attorno a terminologie che affondano in opinioni e percezioni radicalmente opposte. Per esempio: l’arrivo dell’armata partigiana di Tito a Trieste il primo maggio 1945, era una liberazione o un’occupazione? Quale argomentazione ha maggior peso: che la città urbana appartenga al suo entroterra, come era stato avanzato ai negoziati dopo la seconda guerra mondiale dai diplomatici sloveni ovvero jugoslavi, o il contrario, che è l’entroterra che appartiene alla città, come sostenuto dalla parte italiana nel caso di Trieste e ancor più nel contesto della questione istriana? Non si tratta di sopprimere queste divergenze, tanto meno di superarle in modo fittizio, ma potremo certamente capire meglio la dinamica della società se nel complicato nodo triestino conosciamo le argomentazioni degli altri e cerchiamo di comprenderle nell’ambito di aspettative e sofferenze che non sono necessariamente le nostre. Magris e Ara si confrontano con questo complicato nodo triestino da oggettivi storici culturali, e questa è la seconda ragione per la pubblicazione di quest’opera. Al lettore viene presentato il vivace clima creativo che ha caratterizzato, assieme all’identità plurinazionale, la città triestina dai fertilissimi ultimi decenni della monarchia asburgica attraverso il sovversivo novecento fino ai giorni nostri. Tipica per Trieste è la postura cosmopolita creata, attraverso il linguaggio del dialetto triestino, da quotidiani incontri tra persone di nazionalità diverse, l’Italiano e lo Sloveno, il Tedesco e l’Ebreo, il Greco e il Croato. Qui si soffermarono commercianti e scrittori, Joyce per esempio, alcuni lasciarono il proprio segno nella storia, come il vescovo Hren (Coroneo) e il barone Zois. A Duino, tra il mare e le bianche rocce calcaree, meditò per lungo tempo il poeta Rilke. Su Trieste ha influito Freud, e i triestini Svevo e Bartol furono tra i primi scrittori europei a riprendere nella letteratura i concetti della psicoanalisi. Dopo il crollo della monarchia e l’avvento del fascismo, i rapporti nella città si aggravarono fortemente. Il movimento irredentista, che per lungo tempo era arso nel sottosuolo, aspettando l’annessione della Venezia Giulia al Regno d’Italia, nel 1918 si ritrovò, nell’euforia generale, sul Monte Nero, sul Tricorno e sul Nevoso. Con una patetica aggressiva volle all’improvviso cancellare qualsiasi pluralità culturale di questi territori. Già nel 1920 bruciava in fiamme il Narodni dom sloveno, la Casa del Popolo, capolavoro dell’edilizia urbana dell’architetto Max Fabiani, il quale già prima non riceveva molte commissioni a Trieste a causa delle sue origini slovene. Le scuole slovene furono chiuse e anche, questo va ricordato, tutte quelle tedesche. I tedeschi se ne andarono quasi tutti. Gli sloveni rimasero. Come anche quei Triestini che si sentivano radicati nel complicato, ma prezioso e difficilmente ritrovabile microcosmo triestino. Julius Kugy, per esempio, amante della Val Trenta e delle Alpi Giulie. Nel settimo capitolo viene menzionato dagli autori come Kugy cercasse invano di trasferirsi a Vienna. In lui vedono l’esempio prezioso di quanti persistettero nell’attaccamento al plurilinguismo nell’ambito familiare e al trilinguismo del litorale adriatico prima del 1914. Da Vienna, dove tentò invano di stabilirsi, Kugy tornò: »Sono rimasto chiaramente a Trieste. Amo questa bella città, il chiaro sole triestino, il cielo triestino e l’immenso mare azzurro. Nessun’altro luogo potrebbe essere la mia vera patria. Questa è la città della mia giovinezza, del mio lavoro, della mia attività.« (pag. 144)
A Trieste persistettero in circostanze che minacciavano ogni sviluppo di qualsiasi libera attività culturale moltissimi fautori creativi sloveni, da uomini politici ad artisti, da attivisti radicali a sacerdoti. Gli autori non si sono dimenticati di nomi che fanno parte integrante della storia slovena ma, a loro tempo, anche dell’identità triestina e della moderna coscienza europea. Con valutazioni brevi ma fitte di esperienze, vengono nominati in un modo che lasci al lettore la sensazione di come saldamente fossero congiunti con l’ambiente nel quale vivevano e lavoravano, e come possa apparire parziale o persino impossibile una storiografia culturale che raccontasse la storia triestina in una chiave di esclusivismo nazionale. Ma proprio questo era e fino a un certo punto rimane l’aspirazione di quanti negavano e tuttora negano la pluralità eterogenea dell’identità di confine. Questa può essere creativa solo in quanto ammetta l’apertura espressiva e la reciproca conappartenenza. Ara e Magris ci offrono una metafora di convergenze e scontri nazionali che denotano l’Europa contemporanea, e allo stesso tempo ci riportano alle concrete circostanze nelle quali operavano i Triestini e Giuliani sloveni: i politici Etbin Kristan e Josip Vilfan, Lavo Čermelj e Ivan Regent, Avgust Černigoj e Srečko Kosovel, il monsignor Jakob Ukmar, Marij Kogoj, Henrik Tuma, Pinko Tomažič e molti altri.
Gli autori segnalano consistentemente di come la comunità slovena nel Triestino fosse, a partire dalle prime formazioni politiche nell’ottocento, organizzata in modo plurale. Il club Edinost, che pubblicava l’omonimo quotidiano, contribuì in modo importante al risveglio e alla formazione della coscienza nazionale e a causa della forza della controparte italiana, a Trieste, diversamente di quanto successe a Gorizia, gli esponenti di orientamento cattolico e liberale furono costretti a stringere una solida alleanza. Oltre a ciò, la vita politica era segnata da una attivissima socialdemocrazia slovena e da un movimento socialista legato alle classi operaie urbane.
Dopo il maggio 1945, il nodo triestino cambiò radicalmente e, a differenza delle altre regioni all’interno dei due stati, l’Italia e la Jugoslavia, si andava risolvendo molto più lentamente. Un giovane lettore che non conosce la zona oltre confine, rimarrà forse sorpreso da questa semplice constatazione: il delineamento del confine dopo la guerra non era stato né ovvio né automatico. Le truppe di Tito hanno battuto per dodici ore i neozelandesi nella corsa a Trieste, entrando così per primi in città. Dopo quaranta giorni si dovettero ritirare lasciando così spazio ai negoziati, ma le posizioni di partenza erano state segnate. Trovo molto interessante un fatto debitamente sottolineato dagli autori, ma che molte volte non viene ricordato: dopo il 1945, cioè durante tutto il difficile periodo dell’amministrazione anglo-americana del formale e mai realmente effettuato Territorio libero di Trieste, suddiviso in zona A (Trieste e dintorni) e zona B (l’Istria settentrionale da Capodistria a Cittanova) sotto amministrazione jugoslava, il quadro politico di Trieste subì un profondo mutamento. Cambiò in quel basilare significato di strutturazione del potere sociale, nella sua logica e argomentazione, il ché ci aiuta a comprendere quella politica complicata, chiusa verso la vicina Slovenia per tutti i decenni fino ad oggi, una politica noncostruttiva e difficilmente comprensibile nella prospettiva del futuro. A Trieste venne a formarsi una forte politica “guelfista”, come la chiamano gli autori usando un significativo termine della storia politica italiana, che nel Triestino univa la Democrazia cristiana e i circoli del capitalismo nazional-liberale. Questa constatazione da sola non ci dice molto, perciò dobbiamo spiegarla. Il vescovo Santin, di origine capodistriana, si affermò come simbolo delle tendenze antislovene, e allo stesso tempo l’afflusso di migliaia di profughi dalle città istriane a Trieste cambiò profondamente l’indirizzo del movimento politico cattolico. Cessò il suo tradizionale appoggio alla tradizionale formula sociale dell’era austriaca, che era stata in armonia con gli interessi sloveni, delineandosi, a causa della nuova configurazione politica e dell’ideologia comunista jugoslava, nel suo esatto contrario. In questo senso Trieste e Gorizia sono due storie completamente diverse. Subito dopo ci fu un nuovo strappo nell’internazionale comunista, con la Jugoslavia di Tito che si staccò dall’Unione Sovietica stalinista, provocando nuovi scontri all’interno del movimento operaio e lasciando conseguenze durature tra gli sloveni a Trieste. Gli autori si soffermano anche su questo episodio, inserendolo nell’ambito del lungo processo di soluzione della questione del Territorio libero di Trieste, che terminò con la sua liquidazione e l’annessione della zona A all’Italia nel 1954. Fu (soltanto) allora che con il Memorandum di Londra, anche Capodistria, Isola, Pirano e Buie vennero a far parte della Jugoslavia, sebbene avessero cominciato la loro integrazione nella nuova realtà socialista fin dal primo dopoguerra. Ciononostante, ogni qualvolta prendiamo in mano un libro di storia, anche se soltanto di saggistica, come questo, troviamo l’impressione che la parte jugoslava abbia maneggiato con successo i negoziati diplomatici, mentre la parte italiana o non ci sia riuscita o non abbia capito la complessa identità culturale di questi luoghi. L’unico sul versante italiano che avrebbe mostrato della sensibilità per le questioni culturali, sarebbe stato de Gasperi, mentre »gli alleati, in particolar modo gli americani« si sarebbero scandalizzati di come mai »tante discussioni e antagonismi per pochi chilometri quadri di terra.« (pag. 214)
Difficilmente una misurazione del territorio in termini quantitativi riuscirà a comprendere la specifica identità dei microcosmi, così importante per la cultura europea, in quanto nutre e sostiene l’eterogeneità della tradizione, la complessità delle espressioni estetiche, la reciproca resistenza e coesistenza delle diversità, il terreno della patria e dell’utopia, del dolore e della gioia, il movente della paura, del continuo ritorno e della fantasia.
Tutto ciò è Trieste, e non è un caso che Ara e Magris, nonostante la storia piena di conflitti che per lunghi decenni si era svolta senza sosta nelle vie, preferiscano descriverla nelle parabole del linguaggio letterario di Giani Stuparich, Italo Svevo e Scipio Slataper. A Trieste non è facile vivere e Joyce si lamentava di essersi divorato di rabbia mentre viveva a Trieste, concludono gli autori. »A causa della sua diversità, alimentata da sé stessa, e che cerca il senso nella inesprimibilità e nella negazione, trovando in questo anche il proprio alibi, Trieste diventa di nuovo attuale, perché la sua posizione periferica e marginale funge da specchio alla situazione generale della nostra società. Questa condizione può essere vissuta, ma non proclamata: “Quando poi qualcuno viene da noi - così scriveva già nel 1912 Slataper a Sibilla Aleramo -, non sappiamo fare altro che condurlo per queste grigie vie e meravigliarci che egli non capisca”.«
Forse in questi nuovi decenni, adesso che non c’è più bisogno di correre per i negozi e pensare come portare la roba oltre la dogana, potremmo fare un salto a Trieste per prenderci un caffé, fare una passeggiata sul Colle di San Giusto, visitare un conoscente, bere un bicchiere di malvasia chiacchierando sugli autori, da Pahor e Rebula a Tomizza, che vivono in questa città e che hanno creato, assieme ai complicati eventi del novecento, un ambiente che ci è così tanto familiare e allo stesso tempo così estraneo, ma che resta pur sempre parte integrante di quello con cui ci presenteremmo nel modo più veritiero a un visitatore che venisse da lontano.